Nel suo secondo disco solistico, The wind is coming, pubblicato da Da Vinci Jazz, il pianista e compositore jazz offre una chiave di lettura dei diciassette brani da lui presentati, di cui undici di sua creazione, affermando che compito di un musicista è di esaltare i tre elementi fondanti della musica, vale a dire armonia, ritmo e melodia, anche se ascoltando l’album non si può fare a meno di notare come l’ago della bilancia sia orientato proprio sul dato melodico
Prendi un brillante laureato in scienze politiche, che parte poi per Parigi, con destinazione dottorato in sociologia alla Sorbona, che torna quindi in Italia con la prospettiva di una carriera ad indirizzo accademico, ma che, rispondendo a quelle che sente essere le sue vere necessità espressive, lascia perdere Max Weber ed Émile Durkheim e preferisce sedersi davanti alla tastiera del pianoforte per fare un altro tipo di ricerca, basata sui suoni da far affiorare in nome di un equilibrio che può rientrare, in linee molto generali e sfumate, nel genere del jazz. Questo brillante laureato e sociologo mancato si chiama Paolo Paliaga e proprio durante la sua permanenza nella capitale francese ha provato il brivido di veder pubblicato il suo primo disco, dal titolo Faena, il che gli ha permesso di entrare in contatto con diversi compositori e interpreti musicali.
Dopo il suo ritorno nel nostro Paese, quindi, Paliaga non ci ha pensato sopra granché e ha preso la sua decisione, consacrarsi alla musica, esplorando la materia sonora con il suo pianoforte, senza vergognarsi per il fatto di aver iniziato il suo percorso d’apprendimento in modalità “autodidatta” per poi incontrare dapprima Nando De Luca a Milano e poi Ettore Righello e infine partecipando ai seminari di Siena Jazz con Enrico Pieranunzi, anche se poi il suo nume tutelare, a base di lunghe lezioni fatte a casa sua, è stato uno dei maghi del pianismo jazz nostrano, ossia Arrigo Cappelletti. Da quei giorni, Paliaga di strada ne ha fatta, tanto è vero che adesso ci troviamo di fronte al suo nono disco, tra quelli registrati da solo o con altri artisti. Un bottino che ci fa comprendere che abbiamo a che fare con un musicista che deve per forza avere le idee molto chiare, almeno per quella che dev’essere la sua ricerca in ambito musicale.
Questo nono parto discografico è il secondo che lo vede assoluto protagonista al pianoforte, con un CD che porta il titolo di The Wind is coming, pubblicato dalla Da Vinci Jazz, e che presenta una playlist con diciassette brani, di cui undici del nostro musicista (gli altri sono adattamenti di titoli di Cole Porter, Keith Jarrett, Antônio Carlos Tom Jobim, Pat Metheny & Charlie Haden, Sergio Ortega & Quilapayún e Violeta Parra).
Le motivazioni che hanno spinto il pianista jazz a registrare questo secondo album dedicato al solo pianoforte le ha spiegate lo stesso Paliaga nelle stringate note di accompagnamento al disco. La spiegazione è assai semplice, in quanto il musicista rammenta che nelle mani dell’interprete sulla tastiera si concentrano i tre elementi fondanti della musica, ossia il ritmo, l’armonia e la melodia, mani che sono le depositarie di quanto hanno saputo acquisire la maturità artistica, la visione e l’approccio estetico al mondo da parte dell’artista. Questo non significa, però, che un disco sia solo una sorta di “test di acquisizione” che attesta come sia progredito o quantomeno cambiato un musicista nel corso del tempo ma, semmai, quanto sia stato capace di trovare quel necessario equilibrio, quel blend tra i tre elementi in questione, miscelandoli con la dovuta sapienza compositiva. D’altronde, lo stesso fatto che il nostro pianista abbia voluto “esporsi” con undici suoi brani su un totale di diciassette, che porta la durata del CD a superare l’ora di ascolto, è indicativo della sua volontà di mostrare il grado di mix in cui ha voluto convogliare ritmo, armonia e melodia.
Ma prima di affrontare il suo stile compositivo, qualche parola sul suo adattamento interpretativo delle pagine degli altri autori chiamati in causa; è ovvio che qui Paliaga poteva e doveva intervenire soprattutto su due dei tre elementi in questione, ossia il ritmo e la resa melodica. La fase ritmica è stata privilegiata nel brano di Cole Porter, You’d be so nice to come home to, in modo assai gradevole in O grande amor di Antônio Carlos Tom Jobim, trasfigurata mestamente in El pueblo unido jamás sera vencido di Sergio Ortega (un atto di resa “ideologica” o il tentativo di conferire nobiltà a un brano tra i più biecamente politicizzati della storia del Novecento?), e in chiave “scompositiva-cubista” nel classico di Violeta Parra, Gracias a la vida. Capitolo a parte meritano il brano di Pat Metheny & Charlie Haden, Our Spanish love song, e quello di Keith Jarrett, Prism. Il primo viene tramutato da Paolo Paliaga in un esercizio contrappuntistico, mentre lo splendido capolavoro del musicista di Allentown viene esaltato timbricamente, come vuole il titolo, sotto diverse angolazioni di sviluppo tematico.
Per quanto riguarda i brani che sono il frutto della farina del sacco del nostro musicista, devo ammettere che l’ago della bilancia va a pesare in modo indubbio a favore della componente melodica; non voglio dire che Paliaga abbia voluto confezionare un disco “a presa rapida”, per quanto riguarda il livello assimilativo del relativo ascolto, ma su undici composizioni presenti in The wind is coming almeno dieci, appoggiandosi su una valida fonte armonica e su un seducente ritmo, risultano essere convogliate su un piano di immediata fruizione (si arriva al punto che un pezzo come Ora non è allora non rientri propriamente in un ambito jazz in senso stretto, ma strizzi l’occhio alla premiata compagnia Einaudi & Co.), mentre una sola, Nothing Serious, vanta quello swing pianistico capace di convincere i puristi del genere.
Più che discreta la presa del suono effettuata da Stefano Amerio, che presenta una dinamica sufficientemente energica e veloce, tale da restituire una timbrica pianistica di apprezzabile qualità. Lo stesso avviene con la ricostruzione del palcoscenico sonoro, il quale vede lo strumento posto al centro dei diffusori a una discreta profondità. L’equilibrio tonale e il dettaglio si adeguano agli altri due parametri, con il primo che non presenta sbavature di sorta nel registro acuto e in quello medio-grave e con il secondo contraddistinto da una buona matericità.
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5
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