Dopo quasi trent’anni dalla loro registrazione, la ECM Records ha pubblicato in due CD le sei meravigliose e rivoluzionarie Württembergisches Sonaten del quintogenito di Johann Sebastian Bach eseguite dal pianista di Allentown, capace di esaltarle grazie a una lettura in cui la chiave dell’improvvisazione di matrice jazz è risultata a dir poco vincente.
Doverosa premessa, onde evitare inevitabili polemiche e dolorosi fraintendimenti: analizzando questa nuova produzione discografica della ECM Records, dedicata alla raccolta delle sei Württembergisches Sonaten (Wq. 49) di Carl Philipp Emanuel Bach eseguite da Keith Jarrett, non è mia intenzione cadere nella annosa trappola di dover forzatamente dire anche la mia sui musicisti jazz che decidono di affrontare il repertorio “classico”, portandosi dietro inevitabilmente annessi e connessi, ossia un “imprinting” esecutivo che può o meno essere acconcio per poter suonare anche autori della grande tradizione colta del passato. Su questo tema sono stati versati fiumi di inchiostro e si sono consumate tastiere di computer, dando vita a una querelle che ha rischiato di veder sminuita quella settecentesca dei Bouffons, tra coloro che hanno salutato con entusiasmo tale “eresia” e quelli, invece, che con stizza e fastidio hanno gridato allo “scandalo”. Da parte mia, non rientro in nessuno dei due schieramenti avversi, poiché non ne faccio una questione di discussione: per me conta solo la sostanza e non la provenienza, e non perché sono di gusti facili e di bocca buona, anzi, ma non pongo limiti alla mia riflessione d’ascolto e all’analisi che ne consegue, a patto che generi nel sottoscritto interesse e spunti di scrittura. Tutto qui.
Quindi, chi avrà compreso l’andazzo personale, se mi trovo qui a scrivere dell’ultima fatica interpretativa, ma non a livello temporale, del pianista di Allentown, dedicata alle Sonate in questione composte dal quinto dei venti figli dell’immenso e sublime Kantor, è per il semplice fatto che la lettura delle meravigliose Württembergisches Sonaten è davvero notevole e merita più di una semplice riflessione. Vediamo perché, anche se prima è meglio spendere due parole sull’op. Wq. 49 del cosiddetto Hamburger Bach, come venne soprannominato dai contemporanei.
Se è vero che la maggior parte della produzione musicale di C.P.E. Bach si concentra sulle Sonate per tastiera, con le quali il compositore di Weimar costruì la sua fama, non si può fare a meno di notare come una parte consistente di queste pagine, soprattutto quelle apparse dopo il 1760, non richiedono particolari doti virtuosistiche, in quanto, secondo la moda del tempo, furono scritte per un pubblico maggiormente interessato all’efficacia della musica in termini di “affetti”, di emozioni suscitate nell’animo, piuttosto che all’aspetto meramente tecnico. Da questa concezione “effettistica” sono però immuni le prime due raccolte, quelle pubblicate tra il 1742 ed il 1744, vale a dire le Preußische Sonaten (Wq. 48) e le Württembergisches Sonaten (Wq. 49), che di fatto diedero modo al quintogenito del Kantor di affermarsi dapprima a Berlino e poi ad Amburgo. Concentrandoci su queste ultime, non si può fare a meno di constatare come presentino una sorprendente densità di ricchezza sia per quanto riguarda l’espressività, sia per ciò che concerne la tecnica esecutiva, il che ci fa supporre che furono scritte ancora sotto il potente e deciso influsso della figura musicale paterna nel processo creativo di Carl Philipp Emanuel.
D’altra parte, come non notare le similitudini che sono presenti tra le sei Württembergisches Sonaten e le Invenzioni & Sinfonie di Johann Sebastian, a cominciare da quella, eclatante, che lega la Sinfonia IX a 3 voci in fa minore (BWV 795) al tempo centrale (Adagio) della Sonata V in Mi bemolle maggiore (Wq. 49/5, H. 34)? Al di là di questo esempio, sono diverse le “citazioni” delle Invenzioni che si possono individuare in queste Sonate, al punto che la raccolta in questione del musicista di Weimar può essere considerata quasi come se fosse un naturale sbocco della musica tastieristica da Bach padre verso Bach figlio, senza contare, in proiezione futura, come le Württembergisches Sonaten furono studiate e ammirate da due esponenti della prima Scuola viennese, ossia Franz Joseph Haydn e Ludwig van Beethoven (e il discorso potrebbe continuare, a livello di influenze, fino a Schubert che in uno dei suoi corali più famosi, il Gesang der Geister über den Wassern, D. 714, cita letteralmente parte del materiale che compone il primo tempo, Allegro, della Terza Sonata in mi minore, Wq. 49/3, H. 32).
Ecco perché oggi le Württembergisches Sonaten sono unanimemente considerate un’affascinante esplorazione della profondità emotiva e delle tendenze sperimentali di C. P. E. Bach, le quali non rientrano nel calderone variegato dell’Empfindsamkeit, ma restituiscono una gamma completa di tecniche compositive ed espressioni emotive del XVIII secolo, permettendoci, parallelamente, di modificare la visione che fino a qualche decennio fa si aveva del quintogenito del Kantor, quindi non solo musicista figlio del proprio tempo barocco, ma anche autentico pioniere capace di staccarsi dal solco della tradizione per porsi come “intrecciatore” di diversi stili musicali, condensati ed esplicati sotto la sovrana egida della figura paterna.
C.P.E. Bach come esploratore, dunque, come esploratore a tutti gli effetti lo è Keith Jarrett, nel senso che è connaturata in lui la necessità di conoscere il mondo che lo circonda non solo tramite la comunicazione verbale, ma anche e soprattutto con quella pianistica (come amare ripetere egli stesso, il suo apprendimento musicale è iniziato nello stesso momento in cui ha cominciato a dire le prime parole in tenerissima età). Esplorare per dare vita a nuovi linguaggi interpretativi, che rientrino nella sfera del jazz, della classica o della musica etnica, conta solo questo (per spiegare le motivazioni che lo hanno spinto a registrare le Württembergisches Sonaten, Jarrett ha testualmente detto: «Avevo ascoltato le sonate suonate da clavicembalisti e sentivo che c’era spazio per una versione per pianoforte»). Spazio per il suono, spazio per una sua identificazione capace di restare nel tempo, spazio, infine, per dare luogo a una nuova possibilità di accesso nei confronti di un’opera che continua a restituire tutta la sua genialità e la sua unicità.
Non nascondo di essere rimasto meravigliato quando ho visto che la registrazione delle Sonate è avvenuta nel 1994, quindi quasi trenta anni fa, se consideriamo che sono state pubblicate dalla ECM alla fine di giugno 2023! Sinceramente, ignoro il motivo che ha spinto Jarrett e la ECM Records ad attendere tre decenni prima di pubblicare questo doppio CD, ma è indubbio che ci troviamo di fronte a un risultato interpretativo che rientra negli altissimi standard del musicista della Pennsylvania, anzi, direi un gradino sopra… I motivi di questo risultato, a mio avviso, sono diversi; in primo luogo, la capacità da parte di Jarrett di aderire idealmente con i presupposti creativi di C.P.E. Bach, a cominciare dalle peculiarità espressive di cui si nutrono queste Sonate. Ora, non vorrei apparire blasfemo, ma è come se, naturalmente rapportato all’epoca in cui furono scritte, queste pagine rappresentano un tentativo di trasmettere un’idea musicale “improvvisata” e fissata, allo stesso tempo, sul pentagramma. Lo si può dedurre, e questo soprattutto nelle prime tre Sonate, per via di un’indubbia giocosità, nei repentini cambiamenti di tempo, nella ricerca di un’invenzione che possa sorprendere l’ascoltatore. Ecco perché, a livello pianistico, un interprete abituato a improvvisare può trovare terreno fertile nelle Württembergisches Sonaten, in quanto l’elemento della fluidità dato dall’espressività di questi brani si unisce ad una marcata ricerca tecnica, e ciò viene chiaramente fuori nelle ultime tre Sonate, che va a rafforzare l’immagine di un’improvvisazione che ha bisogno di una forma adeguata per resistere nel tempo, ossia il nuovo che si avvale del vecchio per poter offrire originalità alla materia musicale.
Non credo di esagerare se scrivo che Keith Jarrett si sia trovato così in un habitat sonoro ideale, perfetto, per dare vita a un’interpretazione pianistica capace, quando il risultato è così straordinario, di andare a esplorare, a sondare, a far conoscere territori che non possono appartenere al clavicembalo, permettendo così di concretizzare una sorta di humus attraverso il quale poter fissare una fase di passaggio, uno di quei momenti, e non sono pochi nella storia della musica colta occidentale, in cui la materia sonora non può più tornare indietro, in quanto ormai attratta inesorabilmente da ciò che temporalmente viene dopo, quindi con il presente dell’istante già destinato a tuffarsi nel futuro. Con ciò intendo dire che la lettura di Jarrett, evidenziando questa sorta di esprit improvvisativo, chiarisce meglio il ponte che collega le Württembergisches Sonaten a quei sentori di problematicità compositive che saranno colte non tanto da Haydn, quanto dal giovane Beethoven destinato poi a scolpire nella pietra pianistica il sentiero imperituro delle sue Sonate.
Allo stesso tempo, però, quando mi riferisco a una struttura interpretativa in cui si nota una connotazione “improvvisativa”, non intendo sottintendere una libertà esecutiva in Jarrett che va oltre quanto indicato dalla partitura; qui, per improvvisazione, significa far combaciare meglio la dimensione sonora del pianoforte con composizioni che hanno dovuto originariamente fare i conti con il clavicembalo. Ciò vuol dire, e lo considero un fattore di primaria importanza, che il pianista della Pennsylvania riesce attraverso le Württembergisches Sonaten a far “cantare” il pianoforte, ad esaltare tramite un raffinatissimo fraseggio e un accorto volume ritmico la loro caratura e la loro importanza come opera in sé. Ergo, permettere a questi sei capolavori della letteratura tastieristica di portare alla superficie tramite il pianoforte quanto ciò che invece né il clavicembalo, né tantomeno il clavicordo erano precedentemente riusciti a fare, cancellando di fatto i limiti timbrici, dinamici e di fraseggio imposti dai due strumenti più antichi, limiti che in un certo senso imprigionavano le sei Sonate negli angusti confini del nascente Sturm und Drang, ma che Jarrett, con la sua entusiasmante lettura, trasforma in una raffigurazione che già guarda più avanti con disarmante genialità.
Abbiamo dovuto attendere quasi trent’anni ma, visto il risultato, ne è valsa la pena. Per quanto mi riguarda, questo è il mio Disco del Mese.
Lo stato di grazia che si irradia dalla sfera artistica, viene per nostra fortuna ulteriormente confermato dall’esemplare presa del suono effettuata da Peter Laenger. Il primo fattore che colpisce è che, una volta tanto, il tanto celebre “Eicher sound” non presenta quella tipica patina di glacialità che lo contraddistingue, in cui la dinamica è talmente asettica nella sua fredda perfezione da restituire un’immagine sonora spietatamente “oggettiva”. Qui, oltre alle solite e garantite velocità ed energia, si nota anche un profumo di calore acustico, che va ad esaltare l’esecuzione di Keith Jarrett. Inoltre, il palcoscenico sonoro permette di vedere ricostruito il pianoforte a una discreta profondità, che nulla toglie in fatto di messa a fuoco, ampiezza ed altezza del suono, capace di irradiarsi oltre i diffusori. Anche l’equilibrio tonale non tradisce, soprattutto quando deve governare il passaggio repentino dal fff al ppp e viceversa, con una notevolissima pulizia dei registri, in cui la gamma degli acuti e quella dei medio-gravi restano sempre ben distinte e scontornate. Il dettaglio, poi, pompa gittate di nero intorno allo strumento, restituendone una pronunciata fisicità e veridicità, con la possibilità di effettuare un ascolto che non risulta mai stancante.
- DISCO DEL MESE DI MAGGIO
- Carl Philipp Emanuel Bach – Württemberg Sonatas Wq. 49
- Keith Jarrett (pianoforte)
Giudizio artistico: 5/5
Giudizio tecnico: 4/5
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