Nato non lontano da Memphis, città nella quale si trasferirà giovanissimo e dove, grazie all’inclinazione per la musica, poté coltivare il suo personale sogno americano: successo, ricchezza e un marcato impegno sociale a sostegno della difficile situazione in cui languivano le popolazioni afro-americane

Per inquadrare meglio il personaggio Isaac Hayes, la sua «statuaria imponenza», nonché una riconosciuta importanza nell’evoluzione della black music, è d’uopo fare mente locale ad un’intervista da lui rilasciata qualche anno prima di morire: «Ero seduto davanti al televisore a guardare il notiziario della sera e c’erano immagini di disordini a Detroit, edifici in fiamme, e rammento che il commentatore disse qualcosa riguardo al fatto che le case sulla cui porta c’era scritto «soul», non venivano bruciate… un’eco di quell’episodio della Bibbia, in cui Mosè ammonisce gli Ebrei a marchiare con il sangue le porte, per non essere confusi con i loro nemici e sterminali… Mi colpì il fatto che la parola stesse diventando un segno di riconoscimento, una bandiera da sventolare, e pensai che tutto ciò meritasse un inno. Chiamai subito David Porter, gli diedi appuntamento in studio e il pezzo si scrisse quasi da solo, molto velocemente».

Così Isaac Hayes narra la genesi di «Soul Man», spogliandola per sempre dell’aura baldanzosa e ludica che la ottenebrava (almeno nel significato reale) da quando Sam & Dave, nel 1967, ne fecero uno dei campioni d’incasso al botteghino e una hit nelle classifiche di mezzo mondo. Ancora di più, dal momento in cui i Blues Brothers, nel 1979, la riportarono in auge. John Belushi e Dan Aykroyd ebbero il merito di avere introdotto una nuova generazione di appassionati alla musica «nera», anche si resero, al contempo, responsabili di un peccato veniale, ossia l’avere perpetuato del soul, seppure inconsapevoli e con la sorniona complicità di molti dei primi grandi protagonisti neri dell’epopea aurea, una visione oleografica, pericolosamente vicina a quel mito del «Buon Selvaggio» da cui ancora certa critica paludata e perbenista non riesce ad affrancarsi. Con le sue scarne parole Hayes ci rammenta che il soul fu soprattutto la colonna sonora della lotta del «popolo nero» per i diritti civili che agitò gli Stati Uniti negli anni ‘60.

Per molti, Isaac Hayes rimane l’uomo di «Shaft», un pezzo di tale impatto da essere considerato l’inno della black-culture degli anni Settanta. Isaac Lee Hayes, nasce poverissimo, in una baracca di lamiera a Covington Tennessee nel 1942, non lontano da Memphis, città nella quale si trasferirà giovanissimo e dove, grazie all’inclinazione per la musica, poté coltivare il suo personale sogno americano: successo, ricchezza e un marcato impegno sociale a sostegno della difficile situazione in cui languivano le popolazioni afro-americane. Una leggenda vivente, un «gigante» estroso ed eclettico. Ha vinto un Oscar, vari Grammy, possedeva alcuni ristoranti ed ha, persino, scritto un libro di ricette. Prematuramente orfano, cresce in casa dei nonni materni, circondato da una realtà economicamente depressa. A soli cinque anni, si esibisce nel coro della chiesa di quartiere. Adolescente si diletta nel canto col piano, l’organo e il sassofono, componendo e suonando una mistura di rhythm & blues e jazz.

La vera attività di musicista e compositore risale al 1964, quando incomincia a firmare a quattro mani con David Porter brani interpretati da Carla Thomas, Johnny Taylor, Sam & Dave («Hold On, I’m Comin», e la già segnalata, «Soul Man»). Alla fine del decennio, debutta con un album personale: «Presenting Isaac Hayes». La morte violenta di Martin Luther King lo segna profondamente, spingendolo a lavorare più alacremente anche sul piano dell’impegno sociale. L’album pubblicato nel 1969, «Hot Buttered Soul», include «Walk On By» ed una versione lunghissima di «By The Time I Get To Phoenix». Le sue canzoni finiscono quasi tutte nelle zone calde delle classifiche, facendone presto una star di prima grandezza e traghettando il soul verso il formato long playing. Prima di lui gli artisti di colore prediligevano canzoni brevi, non più lunghe di tre minuti, da pubblicare come 45 giri ed in massima parte destinate ai juke-box.

Tra bollenti digressioni funk e palpitanti ballate di seta pura, negli anni successivi riuscirà a portarsi sempre in cima alle classifiche di vendita. Il tema della colonna sonora di «Shaft», del 1971, diventa il caposaldo della sua carriera. L’album è il primo della storia a raggiungere il numero uno, sia nelle classifiche pop che rhythm & blues, così Isaac Hayes diventa il primo compositore africano-americano a vincere un Oscar (oltre a tre Grammy, un Golden Globe e svariati altri premi). La title-track diventerà, al tempo stesso, simbolo del nuovo «potere nero» nel mondo della musica e paradigma ispirativo delle musiche per film e telefilm polizieschi. Il successo di «Shaft» spinge Hayes verso la composizione di altre colonne sonore, divenendo egli stesso interprete e protagonista di numerose pellicole e serie televisive.

L’album successivo «Black Moses» (il Mosè Nero), da cui il nomignolo che gli resterà affibbiato per sempre, è un altro successo, che lo porta in tournée e, nel 1972, sul palco di Wattstax, l’alternativa nera al Festival di Woodstock. Nel 1975 abbandona, a causa di alcuni disaccordi contrattuali e questioni legate ai diritti d’autore, la Stax e fonda una propria etichetta, la HBS (Hot Butterfly Soul). Dal 1969 al 1980, riesce a piazzare nelle charts ben venti album contenenti canzoni che, in seguito, saranno campionate da almeno duecento artisti dance, house ed hip-hop. Dopo la prima metà degli anni ’70, il Mosè Nero cavalca con maestria la nuova onda disco.

Il 1975, con l’album «Disco Connection/Isaac Hayes Movement», autentico caposaldo del genere, lancia in discoteca vent’anni prima dell’house la moda dei lunghi brani strumentali. Molti altri lo seguiranno a ruota. Il tour con Dionne Warwick, pur ottenendo i favori della critica, finanziariamente fu un fallimento. I ricavi non riuscirono neppure a pareggiare le spese di alcune pacchiane ed eccessive scelte organizzative che sfiorarono la megalomania. È un brutto colpo, dal quale si riprenderà dopo parecchi anni. A partire dagli anni ’80, prende le distanze dal mondo della musica, solo qualche sporadica uscita dedicandosi a più remunerativi ruoli per il cinema e la TV, tra cui il nuovo «Shaft» del 2000. Sono, inoltre, da evidenziare «And Once Again» del 1980, e «Lifetime Thing» del 1981. Nel 1986, ancora un ritorno con «U Turn» e due anni dopo con «Love Attack». Negli ultimi tempi, aveva sposato varie cause umanitarie, in particolar modo a favore dell’Africa.

Isaac Hayes rimane comunque uno degli artisti più emblematici per l’evoluzione del soul-funk verso una disco di alta classe, fatta di sonorità orchestrate, arrangiamenti imprevedibili e ritmiche innovative, in cui è possibile captare le prime avvisaglie dell’house-music. Non tutti lo sanno, ma anche il mitico Barry White, forse per una certa affinità vocale, s’ispirò a lui nel modo di cantare, quasi parlando e scendendo di almeno un’ottava al di sotto del registro naturale, ovviamente, con l’aggiunta di una discreta dose di dolcificante. Il Mosè Nero si è spento all’età di 66 anni, il 10 agosto 2008, nella sua casa di Memphis nel Tennessee.

Isaac Hayes

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