Gato Barbieri mantiene invariata la propria originalità espressiva ed esecutiva con quel sax, da quale le note fuoriescono copiose e abrasive, incollate come uno sciame di insetti pungenti, pronti a conficcarsi nelle carni dei fruitori, fino a narcotizzarne l’anima.
Per comprendere la magnificenza di «Standards Lost And Found», pubblicato dalla Red Records, bisogna isolare Gato Barbieri da tutto il contesto. La differenza strumentale e la tecnica improvvisativa sul piano evolutivo ed espressivo, rispetto ai tre sodali italiani, è palpabile. Intorno alla figura del sassofonista argentino è possibile tracciare un doppio racconto, quello italiano degli inizi legato alla collaborazione con musicisti locali e alla sua partecipazione a colonne sonore; più avanti alla sua presenza nei dischi di vari cantautori nostrani. Dall’altra, c’è un gigante considerato, prima del suo approdo ad una forma di world-music tout-court, una delle massime espressioni del jazz d’avanguardia, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. La figura di Gato Barbieri costituisce un unicum. Pur non essendo né americano (inteso come statunitense), né afro-americano, fu accettato nell’Olimpo delle divinità del jazz moderno dando un contributo essenziale allo sviluppo del free blowing, dopo essere riuscito a trovare un punto di convergenza tra l’energia e l’asprezza del jazz libero e le proprie radici ritmiche.
Si consideri che lontani dal tumultuoso scenario della New Thing che negli USA alimentava molta della produzione jazz post-modale ed a volo libero; diversamente nel Vecchio Continente, almeno sulla carta, si respirava un clima più disteso. Le prime esperienze a fianco di Don Cherry ne avevano favorito l’ingesso di Barbieri nella nomenclatura del jazz moderno, passando per la famosa quadrilogia realizzata con la Impulse! Records e dedicata all’emisfero Sud delle Americhe, fino al passaggio alla A&M Records per la quale avrebbe prodotto una musica lussuosa e orchestrata, fatta di ambientazioni romantiche quasi vicine allo smooth jazz, cedendo così alle lusinghe del mercato ed attirando le invettive di una certa critica integralista. Quando l’argentino fisso su nastro questa sessione, nella primavera romana del 1967, era già sulla vetta del mondo, tanto che la differenza con i tre sodali si sente: il giovane Franco D’ Andrea è ancora in balia dei demoni del modale, Giovanni Tommaso porta il tempo come allora sapeva fare, mentre Pepito Pignatelli, un batterista-non batterista, a parte un paio di rullate, fa quello che può. Tutto ciò non inficia minimamente la bellezza del disco, anzi consente a Gato di suonare «quasi da solo» in taluni frangenti. L’argentino aveva accumulato una lunga esperienza americana in situazioni asincrone, quindi procede disinvolto per la sua strada senza alcun tentennamento, come se non avesse nessuno intorno. Il sassofonista mantiene invariata la propria originalità espressiva ed esecutiva con quel sax da cui le note sgorgano copiose e abrasive, incollate come uno sciame di insetti pungenti, pronti a conficcarsi nelle carni dei fruitori, fino a narcotizzarne l’anima.
L’opener «Terre Lontane» è un brano scritto da Giovanni Tommaso, che Gato decripta ed interpreta alla sua maniera, tirando fuori dalla campana del sax una vera forza della natura, concedendo un breve spazio alla retroguardia nell’interstizio, la quale sembra, però, procedere con molta più cautela rispetto al band-leader. In «So What» di Miles Davis, Gato osa dove Miles non aveva mai osato, trasformando una parabola modale in una sorta di ipermodale spinto da i potenti contrafforti free form; soprattutto ribaltando l’assioma e creando l’effetto tempesta dopo la quiete. «Softly, As in a Morning Sunrise» è uno standard che lo stesso Coltrane aveva magnificato durante le sue performance al Village Vanguard, ma Gato si guarda bene dal farne una copia conforme, per contro, ne estremizza la portata e ne irrobustisce i contorni, giocando molto di più sull’idea coltraniana post-Impressions. «All Blues» è un altro componimento piuttosto praticato da jazzisti di ogni risma, ma la versione di Gato si arricchisce di inedite essenze e soprattutto di un linguaggio narrativo più evoluto rispetto alla media che risente del contagio post-coltrane di Pharoah Sanders, al netto del timido incedere della retroguardia, la quale teme di deragliare oltrepassando certi limiti o tendere a taluni eccessi libertari ed anarcoidi non proprio graditi al pubblico italiano dell’epoca. «Maiden Voyage» di Herbie Hancock diventa un trip su un terreno accidentato e trasversale. «Nardis» di Miles Davis viene riletta con una visione laterale ed ipermetrica, dove i cromatismi s’infittiscono e la melodia diventa più aspra e screziata. «Lush Life» è il momento in cui il sassofonista argentino giunge a più miti consigli mantenendosi nel perimetro di una ballata, al fine di concedere un minimo di respiro ai sodali. In chiusura, «Tension», un componimento di Franco D’Andrea, in cui Gato apre all’allora giovane pianista italiano una discreta vetrina espositiva, pur innestando nel costrutto armonico alcuni riff ed assoli robusti e squittenti. «Standards Lost And Found», di Gato Barbieri, pubblicato dalla Red Records su CD e vinile audiofilo, è un disco di notevole portata storica e comparativa tra il jazz americano e quello italiano: sarebbe un peccato lasciarselo sfuggire.
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